La vertigine apparente
Sembra che Giovanni Segantini (1858-1899), il maestro della montagna, amasse aggiungere ai suoi colori una piccola presa di oro in polvere, per dare più intensità alla luce sulle cime innevate dell'Engadina.
Anche Margherita Martinelli ama i doni dell'oro, che non sbriciola col pestello, ma stende in foglie leggere sopra cieli spazzolati di blu oltremare. Ama sciogliere la materia, diluire gli oli, acquarellare la matita quando è grassa, prima di stillare piccoli bagliori insieme a frammenti di carta, leggeri come la polvere.
Partita dalla narrazione di luoghi del nostro immaginario, orizzonti oceanici varcati da velieri e punteggiati di fari, oggi è approdata a una sintesi della visione che vira con garbo verso l'astratto. Quelle tracce conosciute di una natura benevola, popolata di libellule e fenicotteri, hanno lasciato spazio a scenari ariosi, al respiro ampio di una pittura che non racconta, ma evoca. Che parla di confini ideali, di limiti e insieme di prospettive lasciate aperte, complice il dilagare di superfici bianche algide e di uno studio stratigrafico concentrato sui piani della composizione, memoria orizzontale di un paesaggio che si sviluppa disteso, lungo la linea del tramonto.
Davanti alle opere recenti – che anche nei titoli, come Pensieriveloci, tradiscono il passaggio a una dimensione trascendente – la sensazione che si ricava è di sospensione. Siamo tutti sospesi a filo d'acqua, sospesi a mezz'aria, sospesi a pochi metri dal fondo, sospesi nel vuoto e sospesi nel sogno. Margherita non lo dice, ma la sua è un'indagine sottile sulla nostalgia della terra, che mette alla prova il nostro bisogno di sentire i piedi al sicuro, di muovere passi certi, senza paura dell'abisso. Quell'abisso che, nelle sue opere di dimensioni quasi monumentali, si spalanca subito, in primo piano, un salto nel blu che toglie il fiato laddove il mare è già profondo. Non c'è spiaggia, non c'è riva.
Il suo sesto senso per la costruzione del quadro – che esercita altrettanto bene nelle tavole piccole come breviari – la porta ad affettare il mare nei dirupi e nelle altitudini più lontane e a guardarci attraverso, come si fa coi muri d'acqua degli acquari, spingendo lo sguardo distante per vedere cosa si nasconde nell'ombra. Ma, è proprio a questo punto che l'artista non cede alla tentazione del didascalico e, al di là di qualche vela tesa di bolina che risale il vento, tutto il resto è silenzio. È
colore allo stato puro, ritmo di correnti, flutti, risacche del gesto che passa (veloce come i pensieri), ritorna e passa di nuovo.
Un pennello largo alterna i suoi segni a scaglie nervose, grumi di materia che sembrano spalmati a pollice, pioggia di pigmenti spessi come scogli mescolati a colature dai toni fluidi, sciolti nella nitro. Dripping, che però non hanno l'aspetto inconscio della scuola americana, perché Margherita è scrupolosa nell'impaginare la scena su fasce esatte, concedendosi un margine d'evasione nella scrittura automatica che affiora, di tanto in tanto, fra le onde. «Lentamente», «scivolo», «cerco», «dentro», «vicino»: le parole sono più sdrucciolevoli dei pesci che guizzano, si dibattono e nuotano via. Il significato sfugge, la percezione resta nell'aria. Ops, nell'acqua! Un'acqua duttile che – caso raro – è impressa d'impronte.
Bisognerà chiedere a Margherita come sia riuscita a lasciare le sue orme nel mare... La scia di una barca non si cancella, quasi il mare fosse fatto di gesso o di cera. Mentre le sfumature dell'acrilico s'espandono a macchia d'olio, la sua mano disegna col carbone trame e linee scorrevoli, oltre le quali l'oceano è una tavola rasa. A inseguirle con gli occhi, c'è il rischio di perdere la rotta in una matassa di colori per poi – magicamente – di ritrovarsi al punto di partenza. «Stobel comprese quanto il suo errare non fosse mai servito ad altro che a condurlo a luoghi conosciuti» scriveva Queneau nel suo Destino. Come a dire che il viaggio è un ritorno. Un ritorno alle origini. Per Margherita, un ritorno alla pittura.
Rigorosa com'è lei (che studia il quadro come una mappa nautica prima di immergersi), il viaggio è soprattutto mentale, tanto che, accanto agli scorci marini, emergono spesso fiori carnosi dal bulbo dorato e dalla sagoma cerebrale, omaggio agli stessi pensieri inafferrabili che si traducono in parole o in sequenze numeriche tachicardiche.
La paura del vuoto è placata allora dalla ragione, dalla sicurezza di una vertigine apparente, di una sospensione puramente intellettuale, frutto di una ricerca sul linguaggio stesso di una pittura dove la regola supera l'immaginazione.
Chiara Gatti
^ top